Il valore di Spotify (e dei retailer plurimarca)

Tra i concerti che sto programmando di andare ad ascoltare la prossima estate ce n’è uno dei Cigarettes After Sex, una band americana che ha pubblicato il primo album lo scorso anno. Ho subito pensato a loro la scorsa settimana quando Spotify si è quotata in borsa perché i Cigarettes After Sex sono una delle tante scoperte che ho fatto grazie a La tua Discovery Weekly, la playlist che Spotify confeziona esclusivamente per me ogni lunedì.

Come spiega il prospetto informativo pubblicato in occasione della quotazione, infatti, “Spotify is more than a streaming music service. We are in the discovery business”. Buona parte del vantaggio competitivo dell’azienda si basa così sulla capacità di sfruttare l’enorme quantità di dati sull’ascolto di musica di chi utilizza i suoi servizi per offrire una esperienza fortemente personalizzata guidando l’utilizzatore a scoprire brani che gli piacciono. Potendo contare sui dati ricavati da una base di utenti medi mensili cresciuta a 157 milioni di persone, molti più di quelli che utilizzano i servizi dei concorrenti, l’azienda ritiene di essere in grado di eccellere nella capacità di deliziare i suoi ascoltatori con il gusto della scoperta.

I numeri sembrano dare ragione a questa visione dato che a fine 2017 poco meno di un terzo delle 25 ore mensili ascoltate in media da ognuno sulla piattaforma è costituito da playlist preconfezionate. La fetta più grossa, pari al 17% del totale, è costituita da playlist generate automaticamente da un algoritmo come La tua Discover Weekly, Daily Mix o Release Radar; un ulteriore 15% è invece rappresentato da playlist curate da persone in carne ed ossa come RapCaviar, seguita da 9,2 milioni di persone. L’incidenza complessiva di queste due categorie di playlist è in forte crescita se si considera che due anni fa non raggiungeva il venti per cento. È interessante notare che in parallelo alla crescita dell’incidenza delle playlist è variato l’importante indicatore di soddisfazione dei clienti Premium (quelli che versano un abbonamento mensile garantendo il 90% dei ricavi totali dell’azienda) rappresentato dal tasso di abbandono. Tale indice era il 7,5% a fine 2015, è passato a 6,0% un anno dopo per calare al 5,1% alla fine dello scorso anno.

Il successo di Spotify, che oggi in borsa vale circa 27 miliardi di dollari, fornisce un interessante spunto di riflessione per i retailer multimarca, con particolare riferimento a quelli che operano nei prodotti fashion e lifestyle. Il loro vantaggio competitivo rispetto ai monomarca, infatti, non va cercato oggi nel saper proporre al cliente assortimenti ampi e profondi, una soluzione che spesso finisce per zavorrare i bilanci, quanto nello sfruttare il potenziale di migliore conoscenza del consumatore rispetto ai monomarca per offrire al cliente il gusto della scoperta di prodotti e brand in linea con il suo stile e i suoi gusti. Il caso Spotify ricorda quindi ai retailer l’importanza per soddisfare e fidelizzare il cliente di investire in algoritmi e in persone in grado di generare valore attraverso consigli azzeccati (un elemento che non a caso è sempre stato presente nella strategia di Amazon).

La storia di Spotify mostra anche i punti deboli di chi ha il suo core business nel distribuire prodotti di terzi, soprattutto quando il mercato a monte è molto concentrato. Al 31 dicembre 2017 circa l’87% di tutta la musica ascoltata su Spotify deriva da accordi di licenza con appena quattro fornitori di contenuti: Universal, Sony, Warner e Merlin, con tutti i rischi e i costi che possono derivare da questa concentrazione. Il peso delle royalty è il principale motivo per cui l’EBITDA di Spotify è rimasto negativo per 324 milioni anche nel 2017 (- 311 nel 2016) a fronte di un balzo dei ricavi da 2,95 a 4,09 miliardi di euro. La via verso la redditività dell’azienda passerà allora dal mantenimento di una superiore capacità di creare valore sia per l’utente del servizio attraverso l’esperienza di ascolto personalizzata, sia per il fornitore generando royalty elevate ma anche utilizzando la relazione con il consumatore finale e le informazioni che possiede per aiutarlo a sviluppare e promuovere contenuti in linea con i gusti della clientela.

Esiste poi un ulteriore affascinante scenario: gestendo direttamente il rapporto con il consumatore finale e avendo raccolto una immensa quantità di informazioni sui suoi gusti musicali e sulle modalità d’ascolto, Spotify potrebbe essere in grado di trasformarsi progressivamente in un produttore di contenuti (con una strada in fondo non molto diversa da quella intrapresa con successo da Netflix), diventando così un distributore che basa la sua value proposition sull’attrattività di prodotti private label.

Senza dubbio un caso aziendale meraviglioso da seguire per gli appassionati di marketing, retailing e strategia; sarà anche un investimento redditizio per i suoi azionisti?

Un pensiero riguardo “Il valore di Spotify (e dei retailer plurimarca)

  1. Creare un’esperienza è un’arma potente se usata bene, entrare nella playlist personalizzata e ascoltare brani nuovi e interessanti o riscoprire un brano ‘vecchio’ che ricrea un’emozione aiuta a fidelizzare l’ascoltatore che sfrutterà maggiormente il servizio e sarà invogliato a entrare per sentire le nuove proposte. Anche la possibilità di creare playlist collaborative con gli amici o con i familiari è utile, mette ‘in contatto’ le persone che possono condividere la musica preferita con le persone a cui vogliono bene. Spero che l’esperienza di spotify in borsa sia positiva per gli azionisti che hanno investito dando fiducia all’azienda.

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