La differenza tra rainbow washing e green washing

Diversi brand, da Netflix ad Anheuser Bush, da Walmart a Disney, in questi giorni hanno aggiunto i colori dell’arcobaleno al loro logo con l’obiettivo di mostrare durante il pride month il supporto alla causa LGBTQ+ (lo ha fatto anche il mio canale Telegram che in giugno ha abbandonato la 💊).

Verso questa pratica è però montata recentemente la critica da parte di chi ci ha visto un modo per cavalcare una moda approfittando magari anche delle opportunità commerciali che offre il mercato dei prodotti arcobaleno. In molti casi è stato anche individuato un parallelismo con il fenomeno etichettato come green washing, cioè il malcostume diffuso di dichiararsi amici dell’ambiente senza intraprendere nessuna iniziativa concreta per migliorare le cose.

Premesso che evidentemente sono d’accordo che non è sufficiente manifestare la propria posizione con un logo, ma è necessario assumere anche un atteggiamento coerente e proattivo per 365 giorni all’anno, trovo il parallelismo con il green washing concettualmente sbagliato e le critiche il più delle volte delle provocazioni fuori bersaglio.

Il motivo è semplice: nel mondo è quasi impossibile trovare qualcuno che sia contrario all’ambiente, che dichiara di odiare gli animali e la natura e che rivendichi il diritto dell’uomo ad inquinare sempre di più. Per le persone LGBTQ+ purtroppo le cose non stanno così. Anche senza tirare in ballo paesi nei quali essere gay è considerato illegale, basta citare il caso dell’Italia dove partiti che rappresentano una fetta consistente dell’elettorato bloccano da mesi la discussione di una legge che prevede “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”.

L’arcobaleno non è allora un simbolo scontato, ma al contrario è un simbolo che divide. È per questo che nel complesso sono ancora pochissime le aziende che trasformano il logo nel mese del pride (l’impressione che sia una pratica molto diffusa è probabilmente generata dal fatto che a prendere posizione sono stati soprattutto gruppi molto grandi e visibili): chi lo fa si espone ancora oggi alla disapprovazione di una parte dei clienti e di altri stakeholder rilevanti e subisce spesso addirittura insulti e boicottaggi. Ne avevo scritto anche due anni fa sull’onda della notizia che Diesel aveva perso 14.000 follower IG per aver postato messaggi pro LGBTQ+ (qui l’articolo).

Esibire il rainbow nel logo significa quindi scegliere da che parte stare, dare una testimonianza visibile ed essere pronti ad accettare di pagarne il prezzo. È solo il primo passo di un percorso, non è sufficiente a rendere un’azienda inclusiva, ma è un passo importante. Viva l’arcobaleno e quello che rappresenta! 🌈

PS Io tengo il cinturino arcobaleno del mio orologio per tutto l’anno.

2 pensieri riguardo “La differenza tra rainbow washing e green washing

  1. Parlando di loghi si evince una certa prudenza a mostrare sostegno alla comunità lgbtq+ nei paesi Arabi, come per esempio Netflix in Turchia.
    Riguardo alla situazione italiana, il dibattito sul ddl Zan è forte, anche all’interno dello schieramento che lo sostiene, in cui sono diverse le voci critiche (giornalisti come Monica Ricci Sargentini, giuristi come Giovanni Fiandaca, Michele Ainis e Giovanni Maria Flick, personaggi della cultura come Cristina Comencini ed Aurelio Mancuso). Andrebbe approfondito tale dibattito, senza preclusioni anche per le critiche di tipo giuridico e ideologico.

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    1. non capisco l’osservazione sulla Turchia: se in quel paese è difficile mostrare sostegno al pride dovremmo censuraci anche noi?
      Quanto al DDL Zan, diciamo le cose come stanno: in Parlamento è bloccato da uno schieramento che teme di infastidire un elettorato fondamentalmente omofobo.

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