Sta generando molti dibattiti in rete la recente battuta di Flavio Briatore che dopo aver definito “fuffa” le startup ha invitato i giovani studenti presenti per ascoltarlo ad andare piuttosto ad aprire una pizzeria perché così almeno, se l’impresa dovesse fallire, “mal che vada ti mangi una pizza”. Non sono un fan di Briatore, persona alla quale vanno riconosciuti molti meriti professionali ma anche qualche passo falso e uno stile che non piace e non vuole piacere a tutti.
Dietro alla sua provocazione, certamente non condivisibile per come ha liquidato in modo semplicistico la ricerca e sperimentazione di modelli di business innovativi che sta impegnando tanti giovani intraprendenti, deve essere colto però un concetto importante: l’innovazione creatrice di valore non passa solo attraverso la digitalizzazione, l’invenzione di una nuova app o la creazione di nuovi modelli di business basati sul web, ma anche attraverso la reinterpretazione di business tradizionali, magari rinvigoriti attraverso le opportunità offerte dalle nuove tecnologie. Del resto è questo il messaggio alla base anche del Futuro Artigiano del quale parla Stefano Micelli nel fortunato volume omonimo: un saldo legame con la tradizionale manualità artigiana che fa leva sulle potenzialità della rete per proiettarsi su scala globale.
Questo è anche lo spirito che anima fin dalla sua nascita il Premio Innovazione nel Retail – ER (http://www.erspa.com/premio-er.html) nel quale giovani di talento si stanno sfidando nello sviluppare nuove idee per migliorare un settore certamente tradizionale, ma nel quale lo spazio per idee innovative è enorme, come dimostrano i tanti casi di successo che periodicamente si affacciano sulla scena internazionale. Tra 113 giorni il termine per la consegna dei lavori e per scoprire poi chi sarà il vincitore dell’edizione 2014, ricordando il messaggio di Briatore: può essere un’impresa innovativa anche una pizzeria che sappia soddisfare meglio i bisogni dei suoi clienti, naturalmente senza demonizzare il contributo che su questo versante può fornire il web e anche le tante startup web-based che ci stanno migliorando la vita.
Premesso che lavoro in una pizzeria dove la domanda è effettivamente calata in questi anni a detta del mio datore di lavoro, ritengo che l’idea di aprirne una in un momento storico in cui i consumatori tagliano quanto più possibile le spese in eccesso sia un azzardo, e dunque una mera provocazione da parte di Briatore.
All’affermazione ‘Nei miei locali ai ragazzi 5mila euro al mese di mance’ mi verrebbe certo spontaneo chiedere dove potergli mandare il curriculum vitae.. Scherzi a parte, la sua provocazione incorpora anche il messaggio, da molti recepito, che l’università in Italia, pubblica o privata, non assicura e non può più permettersi di promettere un futuro posto lavorativo di successo (”Magari, so che qui non dovrei dirlo, mollate anche l’Università se pensate che la vostra idea sia una buona idea”, intervento poco stimolante sia per la Bocconi che per l’intero sistema universitario italiano attuale).
A tale proposito condivido l’opinione per cui al fine di condurre una vita decorosa occorra comunque un’alternativa, anche se meno prestigiosa e accreditata ma parimenti distinta e remunerativa, tuttavia sostengo in tal caso che pure nell’aprire una pizzeria, come citato, sia fondamentale un’intuizione caratteristica, innovativa, e sì, anche attraverso la reinterpretazione di business tradizionali, in grado di attrarre i clienti fidelizzati di pizzerie d’asporto, o incentivarli a sperimentare quella peculiarità e caratterizzazione personale che determina il valore aggiunto dell’attività imprenditoriale in questione.
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bhè…visto che cita Futuro Artigiano ….. io mi sono posto alcune domande … poichè non concordo con parte del pensiero “miceliano” in quanto accoumuna i makers con gli artigiani…capisco che Micelli con Futuro Artigiano abbia riacceso dei riflettori oramai spenti da tempo, però io proprio NON mi ci ritrovo….in sintesi le espongo le mie perplessità : ….PENSIERINO A VOCE ALTA ….situazione 1- sono un bravissimo artigiano nel senso che sò veramente fare bene una certa cosa con il mio saper fare….lavoro in una grande azienda e posso dedicare ben 8 ore per produrre quello che so fare veramente bene…..situazione 2 – sono un artigiano in proprio e quindi non inserito in un contesto di grande o piccola struttura…devo recuperarmi la materia prima, devo contrattare, devo realizzare, devo organizzarmi la vendita, devo cercare di essere pagato, devo andare dal commercialista, devo cercare di essere congruo…..devo….devo…devo…non riesco più a dedicare 8 ore alla realizzazione del mio prodotto…ma solo 2 ore…tutto il resto lo devo dedicare ad altro….CHI MI SPIEGA….la differenza tra i due artigiani o meglio uno dei due è o non è artigiano?? …..ecco in questo periodo io vorrei proprio perchè il momento non è dei migliori che le differenze venissero ben evidenziate….ma spesso si sorvola perchè parlare di Makers fà più tendenza…da qua a parlare a vanvera di start up il passo o meglio la distanza è breve e si rischia invevitabilmente di parlare di “fuffologia startappara”.
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L’affermazione di Flavio Briatore, imprenditore di altri tempi e di chiacchierato stile, non mi preoccupa. Mi preoccupano, invece, le reazioni dei presenti: risa e applausi dopo la ridicolizzazione delle startup e di quello che esse rappresentano.
“Aprire una pizzeria non vuol dire fare una startup (a meno che non ci sia dietro qualche innovazione tale da farla diventare una catena globale di pizzerie)”. Questa frase è scritta in un libro che si chiama “cambiamo tutto! – La rivoluzione degli innovatori” di Riccardo Luna (Laterza, 2013). E’ la prima cosa che mi è venuta in mente leggendo questo articolo e ascoltando le parole di Briatore. Luna occupa una posizione completamente diversa da quella del patron del Billionaire e in questo libro prova a raccontare alcune esperienze di tanti giovani italiani (e non) che hanno dedicato il proprio impegno e le proprie energie all’innovazione. Innovazione: una delle parole più utilizzate nei contesti dello sviluppo economico e sociale negli ultimi anni, che attraverso i canoni dell’imprenditoria può essere ricondotta a quelle imprese neonate chiamate startup.
Riprendendo in mano Cambiamo Tutto e rileggendo il primo capitolo (intitolato proprio “Startupper – Di come si creano posti di lavoro grazie al web e del perché dobbiamo diventare la startuo di noi stessi”), voglio riportare alcuni dei concetti più interessanti che restano pericolosamente fuori dai ragionamenti di Briatore e di chi in qualche modo è portato a pensarla come lui. Partendo dalla definizione: startup sono le nuove imprese che hanno una forte componente di innovazione e la possibilità teorica di scalare in fretta, diventare grandi, creare valore e quindi posti di lavoro. Tutto partendo da zero. Quante sono le realtà imprenditoriali che nel passato hanno fatto questo e ci sono riuscite? Quante ne conosciamo? Ce ne sono nel Nord-Est, nel resto d’Italia, ovunque. Forse prima non le chiamavamo startup, ma tante di quelle imprese che hanno rifiutato la logica del “piccolo è bello”, tanti imprenditori che hanno creduto nel loro progetto innovativo oggi sono nel mondo e danno lavoro a milioni di persone.
E’ interessante leggere i dati delle tante ricerche pubblicate sul tema dell’innovazione: Riccardo Luna suggerisce quelli della Fondazione Kauffman (“The Importante of Startups in Jobs Creation and Jobs Destruction”, 2010 – http://goo.gl/lBqKYP) riferiti all’esperienza americana, dove tra il 1977 e il 2005 le aziende esistenti sono state “net job destroyers”, perdendo un milione di posti di lavoro complessivi all’anno, nello stesso periodo le nuove aziende hanno invece aggiunto tre milioni di posti di lavoro; ma potrebbe essere molto più indicativo citarne alcuni italiani. McKinsey (“Internet matters: The Net’s sweeping impact on growth, jobs, and prosperity”, 2011 – http://goo.gl/mIyNS6), ad esempio, dice che persino qui nel nostro Paese, a fronte di 380mila posti perduti per effetto della digitalizzazione dei processi e dei mercati, ne sono stati creati 700mila grazie a Internet. Nella primavera del 2012 per la prima volta si è realizzato un sorpasso storico: la Camera di Commercio di Monza e Brianza ha calcolato che il numero di ventenni che hanno aperto un’impresa (19mila) è stato maggiore di quelli che hanno trovato un posto di lavoro a tempo indeterminato (18mila). Un’altra cosa importante che forse qualcuno avrebbe dovuto suggerire a Briatore è che nei periodi di crisi, quando i grandi licenziano, i nuovi (le startup) investono.
E’ vero, le percentuali di mortalità delle startup sono davvero elevate: nove su dieci falliscono e sono poche quelle trovano un mercato e diventano aziende. Forse incarnano l’etica spietata del nostro tempo, quella della vera meritocrazia che manda avanti le idee migliori, i venture capitalist dal fiuto sensibile, i cervelli e i cuori che si dedicano senza sconti di tempo e di speranza al proprio progetto. Forse nell’era del web e dell’open innovation riscopriamo la filosofia (suggerita qualche decennio fa anche da Karl Popper) dell’andare avanti “per prove ed errori”: un fallimento (anche quello degli amici di Briatore che hanno investito in startup) potrebbe diventare un’esperienza utile per un nuovo progetto che magari andrà a buon fine o, se messo in rete e condiviso, un punto di partenza per qualcun altro.
Naturalmente si tratta di un tema molto attuale e in piena evoluzione che non può essere trattato con superficialità, tanto meno con l’arroganza dimostrata da Briatore e la banalità delle risa e degli applausi del pubblico.
Concludendo, se questo commento vi è sembrato troppo pesante, vi consiglio un bell’articolo che è seguito alle dichiarazioni di Briatore pubblicato su chefuturo.it, intitolato “Briatore ha ragione: mollo le startup e apro un kebabbaro” (http://goo.gl/nGiI7z).
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Ritengo che non debba essere dato troppo peso all’affermazione di Flavio Briatore, in quanto, come testimoniano il suo passato e il suo stile di vita, era certamente una provocazione a tutti gli effetti. Nonostante ciò, dobbiamo prendere atto del fatto che l’evoluzione e il cambiamento non passano solamente attraverso il web. In un’epoca in cui sono le cosiddette “growth stock”, imprese con basso capitale sociale e alto valore di capitalizzazione, i veri “driver” del mercato, non dobbiamo dimenticarci del business tradizionale. Questa parte del mercato, che spazia dall’artigiano al pizzaiolo, rimane pur sempre la più “concreta”, quella con cui possiamo direttamente confrontarci nella realtà proprio perché la viviamo quotidianamente. In momenti di recessione questi settori rivelano la loro anticiclicità permettendo ai loro lavoratori di vivere anche le fasi più dure con meno sacrifici. La vera forza italiana, che alcune imprese hanno saputo mettere in pratica, sta nell’essere in grado di unire la passione e la laboriosità dei settori più tradizionali alle potenzialità offerte dalla rete in maniera da creare un mix che permette la creazione di economie di scala, costruite sulle fondamenta di solide economie di esperienza. Dall’altro lato della medaglia, non si può negare che le opportunità di profitto siano, o perlomeno sembrino, di gran lunga più invitanti nei settori hi-tech basati su Internet e quindi non bisogna sorprendersi molti giovani destininino la maggior parte dei loro sforzi in questo campo. I servizi stanno acquistando terreno a scapito dei settori più tradizionali (pensando alla vendita o ad altri settori, mentre certamente alcuni come quello della ristorazione sono insostituibili), e probabilmente si tratta di una strada a senso unico.
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[…] 7. Flavio Briatore. Nelle provocazioni di Briatore ci sono degli spunti di riflessione per i giovani che si sentono imprenditori. […]
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