Logo o no logo, questo è il dilemma che si trovano ad affrontare molte aziende del fashion. Naturalmente non sto mettendo in dubbio l’importanza della marca come faceva qualche anno fa qualche seguace del fortunato volume di Naomi Klein. In particolare quando si discute di prodotti moda e lifestyle è chiaro che “prodotto e marca sono le due facce della stessa medaglia”, come ci ricorda anche Andrea Illy nella prefazione al bel saggio di Stefania Saviolo e Antonio Marazza dal titolo Lifestyle Brand.
Qui voglio invece proporre uno spunto sulla questione, più controversa, di quanto rendere visibili sul prodotto gli elementi identificativi della marca. Da un lato se il consumo di un prodotto è un modo per affermare i propri valori e il proprio stile di vita la sua marca deve essere ben identificabile, ma dall’altro sono sempre di più i consumatori che trovano volgare gridare il nome della marca e ritengono che ci siano molte situazioni “when your own initials are enough”.
Sono alcune delle riflessioni sviluppate ieri a margine dell’intervento all’Università di Padova di Mauro Zilocchi, Global Brand Director Marchon, un intervento dedicato all’analisi del processo che ha portato al lancio dei primi occhiali G-Star Raw. In questo caso la scelta è stata quella di non esibire il marchio sulla stanghetta, ma di inserire una cerniera in metallo che riproduce una parte della G di G-Star, una cerniera che tra l’altro attraversa l’intera montatura con conseguenti vantaggi in termini di resistenza. L’ispirazione industriale del brand viene poi evocata con l’utilizzo di delle viti molto visibili per fissare le stanghette.
È comunque in generale una questione non banale, sulla quale ogni brand deve trovare il suo equilibrio. Quel che è certo è che quanto più nascondo il logo, tanto più devo lavorare con la comunicazione per rendere decodificabili gli indizi che contiene il prodotto. Fondamentali sono ancora una volta a monte il web e a valle la forza vendita in negozio, ai quali spetta il compito di educare il consumatore a interpretare ed apprezzare il prodotto.
Egregio professore,
Vorrei provare ad dare una possibile spiegazione alla questione evidenziata. Personalmente ricondurrei la facenda ad una questione di gusti più ad un fatto relativo al non esibire, perché alla visione di un capo con un marchio molto grande e in evidenza, non mi viene da pensare “se lo comprassi, esibirei troppo”, ma che “brutto” o che “pacchiano”. Io ritengo che questa tendenza, nel campo del lusso, a preferire il minimale, incarni il tentativo di esprimere un eleganza che fa dei propri valori l’essenzialità e la semplicità delle forme e una marca molto vistosa difficilmente non rovina gli equilibri e l’armonia. Questa situazione persiste ormai da un po’ di anni, sia il sintomo di una peculiarità della storia, ovvero una tendenza rivoluzionaria insita nell’uomo che in questo caso porta a ribaltare i valori affermati dagli avi. Un po’ di anni fa( iniziando con i baby boomers) la marca, i dettagli e gli accessori iniziavano ad ottenere sempre più importanza dovuta all’arricchimento della popolazione e all’esibizione dei nuovi status acquisiti. Ciò arriva a quasi l’eccesso per esempio con i paninari. Secondo me le imprese dovrebbero concentrarsi ad incorporare questi nuovi valori perché è difficile un cambio di tendenza, anche se, per il lusso, magari se qualche simbolo dello stile e della moda indossasse qualche capo griffatissimo porterebbe ad effetti migliori di quelli provocati dalle catene d’oro con il mega simbolo di Gucci portate da qualche cantante rap afroamericano. Per concludere credo questo fenomeno difficilmente possa portare all’eliminazione del logo, ma solo ad altre forme per affermarlo.
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Credo che i vari brand siano degli elementi fondamentali della cultura popolare del nostro tempo. Lasciando da parte le questioni riguardanti il loro strapotere, esse esprimono una serie di valori, esperienze, sensazioni, che sono sempre più radicati nella società, ed anzi ne sono quasi una guida. In molti casi, inoltre, sono garanzia di elevata qualità e con le loro storie e tradizioni costituiscono un vanto soprattutto per paesi come l’Italia e in settori come quello del lusso, ma non solo.
Per tali ragioni, ritengo importante che il logo debba avere un ruolo rilevante e quindi debba essere esposto e messo bene in vista nel prodotto, in modo tale che sia subito riconoscibile. Devo comunque ammettere che questo processo non è assolutamente facile, nel senso che bisogna trovare un giusto mix che metta sì in risalto la marca, ma non rovini il risultato complessivo del prodotto: infatti il consumatore d’oggi non è più tanto interessato solamente ad avere il prodotto griffato, quanto piuttosto alle sue caratteristiche, alle sensazioni che trasmette, al suo valore “intrinseco”, frutto di un, magari elaborato, processo produttivo.
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Parlando dell’importanza del logo e della sua visibilità mi torna alla memoria la marca Angel Devil che anni fa propose nel mercato dell’abbigliamento giovanile i famosi jeans con le ali stampate sul fondoschiena sovrastate dal nome del brand scritto a caratteri cubitali. Questo prodotto ebbe un gran successo tra i giovani dell’epoca, ribelli con le ali, felici di indossare qualcosa che somigliasse a loro, ma destinato poi a scomparire negli anni successivi come ogni moda passeggera. Quelle enormi ali infatti erano non solo rivolte ad uno dei gruppi sociali, gli adolescenti appunto, che già di per sé si caratterizza per gusti e preferenze altamente variabili, ma anche di notevole impatto visivo, diventando ben presto “pacchiane” agli occhi del consumatore. Esibire in questo modo il marchio è sicuramente una scelta rischiosa e azzardata perché potrebbe colpire il consumatore o disgustarlo totalmente e destina in ogni caso il prodotto alla scomparsa, “stancando” il consumatore, sempre più alla ricerca invece di un marchio meno appariscente ma più ricercato.
Anche nella decisione del logo bisogna dunque saper colpire nel segno, come sembra aver fatto una delle marche più note nel settore del lusso: Louis Vuitton. Questa marca infatti non ha semplicemente creato un logo, ha reso il suo monogramma un elemento ripetuto su borse, portafogli, cinture,.. creando così, insieme ad altri simboli, una fantasia originale e identificativa del brand, riproposta in un numero sempre maggiore di versioni, che testimoniano la capacità di aggiornamento del brand stesso mantenendolo comunque legato alle sue origini.
Oggi ci si trova di fronte ad un consumatore meno interessato all’ostentazione della sua classe sociale o del suo reddito, ma desideroso di manifestare le sue abilità nella ricerca dell’affare ma soprattutto la sua intelligenza e che si aspetta quindi, per certi versi, altrettanta sofisticazione e ingegnosità da parte delle marche nella creazione dei loro loghi, che se vogliono quindi presentarsi come innovativi non possono più essere delle semplici scritte a caratteri cubitali. Da qui nasce dunque una vera e propria sfida per designers e marketing managers, alla ricerca del logo più accattivante ma allo stesso tempo identificativo, tenendo sempre in mente il mercato obiettivo e le sue caratteristiche.
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Io penso che un passaggio chiave sia “lavorare con la comunicazione per rendere decodificabili gli indizi sul brand che il prodotto contiene”. In quanti, vedendo quel’ “uno rovesciato”, lo avrebbero ricollegato al logo di G-Star (ricordo che anche il Professor Dal Santo lì per lì ha avuto un attimo di perplessità)? Quanti, dinanzi allo sguardo torvo di Magnus Carlsen nei suoi jeans Denim, avrebbero riconosciuto il re norvegese degli scacchi, comprendendo la “value proposition” che dietro di lui si cela? “Scegliere persone che hanno qualcosa da raccontare, più che un bel viso”, ci ha spiegato il Dottor Zilocchi, ma la loro voce sola rappresenta una promotion adeguata?
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Condivido quanto affermato da Fabio, sinceramente nemmeno io avrei individuato la parte di G nella stanghetta dell’occhiale se non mi fosse stato suggerito. Ritengo che, per quanto sia fondamentale l’inserimento del logo nel prodotto, oggi stiamo assistendo ad un’evoluzione sempre più evidente di altri strumenti per comunicare il valore dello stesso. Come Lei ricorda nella parte conclusiva dell’articolo è forse oggi il web strumento ben più importante per trasmettere al consumatore ciò che il prodotto, e il brand in generale, rappresentano. Basti pensare a come, soprattutto nel mondo del fashion, Instagram sia un mezzo essenziale per relazionarsi con consumatori e clienti. Un esempio recente sono le numerose foto pubblicate da attori, personaggi dello spettacolo, stilisti e case di moda (tra cui Valentino, Balmain Paris e Dolce&Gabbana) in occasione del Met Ball 2014, tanto che mi sorge spontaneo chiedermi se questa tendenza stia sostituendo l’ostentazione della marca: l’hashtag al posto del logo.
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Trovo che la creazione degli occhiali G-Star Raw da parte di Marchon sia davvero interessante, soprattutto per la coerenza con i valori del brand che è molto ricercata nelle caratteristiche del prodotto, quindi anche una certa sobrietà che ha influito nel non marchiare il prodotto in modo troppo evidente.
Chiaramente in questi casi la comunicazione gioca un ruolo chiave per cercare di farsi conoscere, ma credo che non esporre esplicitamente il logo sia anche un modo per stuzzicare la curiosità del consumatore, spingendolo alla ricerca del dettaglio che fa la differenza e caratterizza il brand: degli esempi ne sono il famoso intreccio delle borse Bottega Veneta o l’incrocio nella montatura frontale degli occhiali Tom Ford.
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Quando ero poco piu’ che una quattordicenne (quasi 10 anni fa) mi regalarono una maglia con stampate le iniziali D&G al centro a caratteri giganteschi: sobrietà zero! Eppure erano capi che venivano stravenduti all’epoca poichè vi era questa tendenza all’accentuare, al sottolineare la marca attraverso il logo in maniera smisurata. Possedere un capo del genere suscitava invidia e stima tra i consumatori. In dieci anni il trend è cambiato e penso sia alquanto difficile trovare una maglia dello stesso modello nell’attuale collezione D&G.
L’accentuazione e l’esagerazione hanno portato ad una sazietà mentale del consumatore nel giro di poco tempo, tanto che oggi l’approccio che tendono ad adottare le aziende è quello della sobrietà. Il logo non è piu’ evidenziato fuorimisura, anzi esso si trasforma da attore principale a sceneggiatura mantenendo comunque un ruolo fondamentale. La marca esprime i principi e i valori alla base di ogni lavoro e lascia che siano questi a rendere unico il bene prodotto. Un capo Blumarine si distingue fra mille per i suoi colori, le sue fantasie e i suoi tessuti senza alcuna necessità di applicare il marchio in bella vista. Lo stesso vale per un capo Armani riconoscibile dall’eleganza e dalla raffinatezza. Tuttavia questo ragionamento è valido per le marche già note, una marca non famosa che vuole emergere nel mercato deve per forza lavorare paripasso su prodotti, valori e logo. Attenzione a non enfatizzare troppo quest’ultimo, importante è comunque garantirgli quella visibilità che porti il consumatore a riconoscere cio’ che sta acquistando. Si tratta quindi di una linea sottile tra sobrietà e pacchianità tra anonimato e notorietà.
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Volevo inoltre aggiungere un’ulteriore riflessione, sul tema della dimensione del logo, inerente alla pubblicità che questo, di fatto, genera. In particolare ritengo che più grande sia il logo del brand, più questo è in grado di saltar subito agli occhi della gente, generando pubblicità positiva per l’azienda (nel senso che se un prodotto viene indossato/usato è anche indice di gradimento), indipendentemente da come si presenti il logo stesso. Ma il fattore più rilevante di questa questione è che l’azienda riceve pubblicità senza spendere un solo centesimo! Questo fenomeno è sempre più evidente, tanto che perfino aziende come intimissimi, che operano nel settore della biancheria intima, ricevono moltissima pubblicità: questo fatto, impensabile (e anche un po’ divertente) ,a mio avviso, cinquant’anni fa, è dovuto alla moda della “vita bassa”, che mette in risalto l’elastico dei boxer, in cui è presente la denominazione della marca.
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Non appena ho letto quest’articolo, anche a me sono tornati alla mente gli inizi dello scorso decennio. Era il periodo delle magliette stampate con il nome del brand, delle borse interamente logate, dei fiori a sei petali di Guru… Sicuramente oggi le cose sono cambiate.
Un ruolo chiave è stato giocato dalla crisi, che ha cambiato la percezione del consumatore in relazione all’esibizione della marca: di fronte a quantità crescenti di poveri e disoccupati, evidenziare le proprie possibilità d’acquisto sembra offensivo e pacchiano. Il fatto che oggi il consumatore sia così attento alla grande occasione è forse una conseguenza della crisi che stiamo vivendo, ma di sicuro contribuisce ulteriormente a non voler mostrare il brand, dato che il giudizio potrebbe essere quello di essere incapace di esprimersi tenendo d’occhio il rapporto qualità-prezzo. A mio parere, al giorno d’oggi il brand non è più di per sé il mezzo per esprimere “direttamente” la propria personalità, il proprio status sociale e ciò che l’individuo vuole essere di fronte agli altri, bensì contribuisce indirettamente: il consumatore più attento ha come obiettivo quello di sentirsi a proprio agio, e indossare un certo brand gioca un ruolo fondamentale, sebbene non sia necessario che gli altri sappiano che di quel determinato brand si tratta. Lo stile non si esprime mostrando il brand, bensì con ciò che il design, la forma, i richiami del prodotto (il quale dev’essere in linea con il posizionamento obiettivo) esprimono. Per esempio, una persona attenta alla moda casual può voler indossare gli occhiali da sole G-Star Raw per sentirsi a proprio agio (trattandosi di un brand affermato nel settore) ed esprimere il proprio stile con gli altri, sebbene rimanga nascosta la G nella stanghetta: sono la forma, il design, i colori che definiscono lo stile della persona che li indossa, e non la marca direttamente.
Proprio per questo le imprese devono cercare oggi più che mai di costruirsi un’immagine tale da renderne riconoscibili i prodotti anche senza la presenza esplicita del logo, e quindi attraverso l’uso di lavorazioni o materie prime particolari (pensiamo ad esempio a Missoni o alla lavorazione delle borse Bottega Veneta), lo sviluppo di uno stile coerente per l’intera collezione ma anche stabile nel tempo (ad esempio le collezioni in pizzo di Dolce&Gabbana) o la presenza di elementi piccoli ma significativi che permettano il riconoscimento immediato (come nel caso delle borse con fantasia a quadri di Louis Vuitton, dove il nome compare solo in piccolo nel riquadro più chiaro). Questo permetterà loro di vestire chi si identifica nel loro stile, di evitare chi ricerca solo la marca e di rimanere comunque facilmente riconoscibili, ma in modo più raffinato. Il costo da pagare? Conoscere il proprio consumatore e capire quali siano le sue aspettative, ma soprattutto capire quale sia l’immagine del brand da comunicare ed essere in grado di svilupparla concretamente nella realizzazione dei prodotti.
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Mi scuso se il commento sembra un po’ lungo, ma dopo i commenti gli stimoli per scrivere qualcosa erano numerosi!
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Personalmente penso che ogni prodotto,soprattutto nell’ambito della moda,sia portavoce di un messaggio,di una personalità che l’ha concepito e che gli ha dato vita.In virtù di ciò ritengo che un prodotto, per dimostrarsi di valore, non debba necessariamente esporre la marca(così come ciascuno di noi per comunicare il proprio essere non deve esporre un cartellino identificativo).
A mio parere il consumatore oggi ricerca qualcosa di più di un brand,cerca un messaggio,una particolarità,un segno che lo distingua da una massa sempre più uniforme e anonima.
L’esperienza di acquisto di un capo griffato credo sia più riconducibile ad una necessità di possedere qualcosa di unico o comunque raro,oltre che di qualità, più che ad un bisogno di affermazione.
Non è infatti un caso che grandi stilisti come Valentino,Hermès e Chanel (pensiamo alle catene e alle impunture delle borse di Chanel tornate da poco di moda,così come allo scollo profondo che ricorda una V e al colore rosso tipico dei capi di Valentino)siano maggiormente noti per tratti contraddistintivi ed essenziali più che per l’esposizione del marchio. Il loro punto di forza è stato nel proporre prodotti”senza tempo” e capaci di comunicare da sè il proprio valore e il proprio messaggio di eleganza.
Penso dunque che il brand sia un elemento da inserire in un prodotto ma in modo velato o al più fantasioso(come è stato proposto Da Luis Vuitton con la linea monogram).
Di certo è vero che il processo d’identificazione del marchio da parte del consumatore sarà in tal modo un po’più complesso ma ritengo che, poichè lo stesso è e rimane comunque il portavoce di un messaggio e di uno stile di vita,saprà certamente farsi riconoscere. In fondo il prodotto è l’espressione di un’anima che l’ha concepito perciò sarà sempre fedele a quegli elementi che lo”hanno”contraddistinto “fin dalla nascita”.
Così come l’uomo cresce e si modifica mediante le esperienze pur conservando i “tratti”unici e “base”del proprio carattere, così penso evolva un brand ed un prodotto ad esso connesso.
Anche se il bene non espone in modo visibile il logo si possono comunque carpire molte informazioni dal contesto in cui è stato inserito,a partire dai punti vendita che lo possiedono,dalle locations in cui è venduto,dal tipo di comunicazione con cui è supportato ecc…
L’obiettivo delle aziende,pertanto, dovrebbe essere quello di rendersi uniche e “irripetibili”mediante un segno”chiave” che non necessariamente deve essere insito nel brand(inteso come segno estetico) ma può essere anche proprio della modalità di comunicazione piuttosto che del tipo di arredamento del negozio(Abercrombie & Fitch ne è un esempio).
Le aziende dovrebbero in sostanza trovare”una propria impronta digitale”capace di offrire qualcosa di unico e per questo desiderabile indipendentemente dall’esposizione del proprio logo.
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Negli ultimi anni i gusti dei consumatori sono cambiati radicalmente. Mentre nel passato ostentare ricchezza era considerato un metodo per affermarsi nella società -si pensi alle imponenti feste nei palazzi nobiliari dove l’eccesso era all’ordine del giorno e vigeva la regola ‘più c’è, meglio è’- con l’affermarsi della società contemporanea diventano più accessibili anche i beni non di prima necessità. I ceti medi desiderano quindi emulare la fastosità della classe alta mentre questa vuole è nuovamente alla ricerca di nuovi modi per distinguersi. Nasce così il desiderio di semplificare, di rendere visivamente il bello senza rischiare di essere ‘pacchiani’. L’obiettivo della nuova classe abbiente é quello di rendersi visibili e rendere immediatamente riconoscibile ciò che si possiede, non al consumatore della fascia bassa ma bensì agli individui che appartengono alla propria “casta”. Si pensi al fenomeno Tiffany: i gioielli prodotti dalla nota casa orafa sono perfettamente riconoscibili nonostante non rechino a caratteri cubitali il logo. Il noto nome della gioielleria mondiale si sta muovendo sempre più nel senso della collaborazione con noti designer -come Elsa Peretti e Paloma Picasso- ed importanti nomi della moda, per affermare qualità e la bellezza in maniera da rafforzare il brand. I nuovi gioielli non presentano il marchio in bella vista. Non ne hanno bisogno, si vede che è Tiffany.
Per questo motivo le aziende oggigiorno dovrebbero cercare di rendere perfettamente riconoscibili i propri prodotti utilizzando risorse specifiche e puntando meno sul fattore logo. Se un prodotto è di qualità lo si riconosce. Come Hermes le aziende del lifestyle dovrebbero concentrarsi meno sull’essere di lusso e più sul diventare ‘aziende di qualità’.
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È interessante portare l’esempio di Armani, brand che ha scritto la storia della moda. L’azienda presenta due linee di prodotto, tra le altre, una rivolta ad una clientela abbiente, l’altra rivolta ad una clientela di fascia medio bassa. La differenza sostanziale sta, oltre che nel prezzo e nella qualità più elevata della prima, nell’esibizione del logo. La linea Armani Jeans -la seconda- si compone di pezzi più basici ma che presentano scritte visibili e riferimenti palesi. È come se il logo sopperisse alla mancanza di unicità dei pezzi, l'”Armani Jeans” ricamato sulla stoffa rende una maglietta tutto sommato anonima un prodotto che si vende. Dobbiamo però soffermarci sulla tipologia di clientela che la linea di prodotto vuole attirare. Sebbene Armani sia un brand riconosciuto nell’alta moda, l’acquirente tipo di Armani Jeans è il consumatore medio-basso che desidera riconoscersi nel brand più che nel prodotto. Tutto il contrario possiamo dire del cliente della prima linea: la qualità e l’unicità sono al primo posto, soltanto poi viene la griffe, che deve essere riconoscibile in maniera velata.
In sintesi, credo che se si voglia proporre un prodotto che vada incontro ai gusti dei nuovi consumatori del lusso, sia necessario puntare sulla riconoscibilità del marchio piuttosto che sull’apparizione del logo, in quanto il prodotto stesso deve essere riconoscibile per esclusività e qualità.
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