Per avere manager bravi bisogna pagarli molto (o no?)

Non c’è pendolare che nei giorni scorsi non abbia scambiato con gli amici un paio di battute sulla ormai famosa affermazione di Mauro Moretti, l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, che si è dichiarato pronto a lasciare l’azienda nel caso di un taglio di stipendio. In un’azienda grande e complicata come le Ferrovie, è stata la tesi di Moretti, delle retribuzioni “elevate” sono indispensabili per attrarre manager bravi che altrimenti se ne andrebbero altrove. Nel dibattito che ne è seguito, che ha preso peraltro in buona parte una deriva populistica, molti autorevoli commentatori hanno precisato che il vero problema non starebbe nell’avere retribuzioni elevate, ma nell’ancorarle ai risultati ottenuti: tanti soldi sì, ma solo a chi li merita.

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Su questo punto andrebbe osservato che dopo diversi decenni di dibattiti nella letteratura economica e aziendale (si guardino a questo proposito cinque lustri di documentati lavori di Kevin J. Murphy della University of Southern California) si è ancora ben lontani dall’individuare quale sia il modo più efficiente ed efficace per remunerare i manager e anche per legare la loro retribuzione  ai risultati nell’interesse degli azionisti. Da più parti nella letteratura si avanza inoltre il dubbio che anche nelle aziende private il livello delle retribuzioni dei top manager finisca per riflettere più il loro potere personale che la capacità di lavorare nell’interesse degli azionisti.

Qui non voglio però addentrarmi in questo dibattito, quanto piuttosto lanciare una provocazione più radicale: è proprio vero che pagando di più si “acquistano” manager più bravi? O si attirano semplicemente le persone più attratte dal denaro? In Whole Foods Market, senza dubbio uno dei retailer di maggior successo degli ultimi venti anni, vige la regola che nessuno in azienda possa ricevere uno stipendio superiore a 19 volte la retribuzione del lavoratore medio: si tratta di una retribuzione certamente elevata, ma ben lontana dagli stipendi che spuntano molti dei manager delle grandi aziende americane quotate. Non solo: lo stipendio è uguale per tutti i sette membri del top management team e inoltre il pacchetto di benefit aggiuntivi è lo stesso per tutti i dipendenti, dalla cassiera al manager. Tutto questo in un contesto nel quale le informazioni sulle retribuzioni di ogni membro dell’organizzazione sono accessibili a chiunque.

Il motivo di questa scelta viene spiegato da John Mackey, fondatore e attuale co-amministratore delegato, in un libro recente nel quale illustra i principi che hanno guidato e guidano la gestione della sua azienda e che fin dal titolo, Conscious Capitalism, rivela la sua visione di fondo: “vogliamo leader che si preoccupino della missione dell’azienda e delle persone che la compongono più che di arricchirsi”. Inoltre, è sempre il pensiero di Mackey, il fatto di avere un tetto alle retribuzioni manageriali consente di attrarre persone con una maggiore intelligenza emotiva perché sapersi rendere conto di avere abbastanza soldi da vivere in modo confortevole è un segno di maturità mentre “passato un certo punto volere di più non è una cosa sana ma una sorta di malattia”.

Un modello che non può funzionare in un’economia di mercato? Utopie? Demagogia? Beh, intanto bisogna prendere atto del fatto che seguendo questi principi Whole Foods Market ha realizzato negli ultimi 25 anni una crescita media annua della produttività dei punti vendita dell’8%, ha continuato negli anni a generare valore per gli azionisti ed è oggi un’azienda che vale in borsa circa 19 miliardi di dollari dopo aver sovraperformato l’indice di riferimento della borsa americana di ben quattro volte solo nell’ultimo lustro (si veda il grafico qui sotto). Gli azionisti, tra i quali molti dipendenti, ringraziano, e ringraziano anche i clienti che apprezzano questi bellissimi supermercati. Si tratta di un modello replicabile?

andamento del titolo WFM in relazione allo S&P 500
andamento del titolo WFM in relazione allo S&P 500

 

 

12 pensieri riguardo “Per avere manager bravi bisogna pagarli molto (o no?)

  1. mi sembrano ottime considerazioni, che superano il dibattito superficiale di questi giorni. Si potrebbe aggiungere: andrebbe remunerata meglio l’attività di chi produce valore durevole per l’azienda rispetto agli incrementi di tipo speculativo che spesso nei tempi lunghi portano alla distruzione di ricchezza

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  2. Moretti si fa paladino del libero mercato e della tesi secondo cui le retribuzioni elevate sono un mezzo per selezionare i manager migliori ma si dimentica di dire che il libero mercato lui non l’ha mai affrontato: ha trascorso la sua intera carriera all’interno di FS.
    Chissà se in una competizione “leale” riuscirebbe ad ottenere la stessa retribuzione.

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  3. Lasciando da parte la pioggia di polemiche che le dichiarazioni di Moretti hanno sollevato nell’opinione pubblica italiana (non è certo stato un genio della comunicazione in questo caso), vorrei entrare nel merito delle sue parole, in particolare la tesi che l’AD di FS sostiene con vigore, e cioè il fatto che retribuzioni elevate (diciamo pure spropositate) sono indispensabili per attirare manager bravi e competenti: ma è davvero così? Non bisogna guardare troppo lontano per capire che questo rapporto tra qualità del manager e retribuzione non è così lineare. Il predecessore di Moretti in FS, l’ingegner Elio Catania, nel 2005 ha presentato un Bilancio consolidato del Gruppo in perdita per 465 milioni di euro, oltre ai noti e notevoli disservizi lamentati dai pendolari. Nonostante questo, oltre a percepire un lauto stipendio fisso, l’ex AD ha ricevuto una liquidazione di 6,7 milioni di euro (!!!)
    Con questi numeri, secondo il ragionamento di Moretti, anche l’ingegner Catania può essere definito un manager “bravo”: non oso immaginare cosa sarebbe successo con uno incapace.
    Dal punto di vista dei conti a Moretti non si può dire nulla, perché i numeri registrati negli ultimi bilanci sono positivi e in miglioramento, ma penso che un “buon manager”, come lui si definisce, non ha solo il compito di far tornare i conti a fine anno (per quello basterebbe un bravo ragioniere), ma deve tenere conto anche (e soprattutto) del servizio offerto all’utenza! Provi il signor Moretti a prendere un Trento-Bassano delle 7 ogni giorno, dove non c’è spazio nemmeno per respirare…ah no, secondo me va a lavoro con Italo.

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  4. La bravura non si misura in denaro bensì in risultati. Ma nel caso di Trenitalia i risultati come si misurano? Dai risultati in bilancio o dal soddisfacimento dei consumatori? Il bilancio non puo’ essere una buona stima in questo caso vista la mancanza di reali concorrenti con cui confrontarsi sui profitti (Italo è un buon concorrente solo su alcune tratte). Se guardassimo al soddisfacimento clienti o, meglio, all’insoddisfacimento non potremo definire Moretti un buon manager. Sono convinta che se fosse possibile creare una vera concorrenza anche nelle tratte regionali a parità di prezzo il consumatore preferirebbe di gran lunga il concorrente, in quanto dubito possa esservi un servizio peggiore di quello attuale fornitoci da Trenitalia.
    Freccia, un nome ed un ossimoro.
    Speriamo che il premier Renzi quando parla di riforme ed esulta: “Stiamo filando come frecce” non si riferisse a quelle di Trenitalia….

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  5. La mia risposta a questa domanda provocatoria tenderebbe ad essere un “sì”. Non si tratta però di una regola generale. Il problema sottostante, presente in qualsiasi azienda e a qualsiasi grado della scala gerarchica, è sempre lo stesso: la divergenza di interessi tra shareholder (o, più in generale, stakeholder) e lavoratore. Questo si verifica in modo preponderante per il top management, cui spetta il compito di guidare l’azienda. Nasce quindi il bisogno di sviluppare un’adeguata politica di retribuzione ad incentivi anche diversi dal denaro, a patto che siano strettamente legati agli obiettivi. Si può stimolare l’intelligenza emotiva del lavoratore, il suo “sentirsi parte dell’azienda” in modo che ne persegua i fini con maggiore determinazione proprio perché si sente parte di questa. Un obiettivo che si è cercato di raggiungere attraverso lo strumento delle stock option, purtroppo senza successo perché proposte in cifre troppo basse per stipendi molto alti. La domanda che credo ci dovremmo porre quando vediamo i lauti stipendi dei top manager è: se la mia azienda stesse sperimentando una grave crisi e molti lavoratori dovessero essere licenziati, quanto sarei disposto a pagare una persona che possa risollevarne le sorti? A quel punto le uniche cose importanti sarebbero la bravura e l’esperienza, che, ahimè, sono sono risorse scarse e di valore, costose da acquistare. Non mi resterebbe che pagare il prezzo richiesto.

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  6. Sicuramente per avere manager con molta esperienza e che abbiano ricoperto cariche importanti servono stipendi molto alti.
    Uno stipendio elevato, tuttavia, non assicura che il manager non favorisca i propri interessi a discapito del valore per gli azionisti e per l’azienda in cui lavora. Nel film documentario, “Inside job”, vengono elencati gli stipendi dei top manager di banche come Lehman Brothers subito prima della grande crisi economica del 2008 da loro stessi causata.Tali stipendi arrivavano a centinaia di milioni di dollari all’anno ma il loro non è stato di certo un lavoro profittevole per azionisti e aziende.
    Non è facile però determinare i compensi per i manager in maniera efficiente pur ancorandoli ai risultati ottenuti. La Whole Foods Market è riuscita a trovare manager capaci, nonostante offra salari minori rispetto agli altri, poiché promuove in maniera marcata valori come mangiare sano, fare beneficenza e far sentire a proprio agio il lavoratore che sono facilmente condivisibili da chi dà maggiore importanza ad aspetti del proprio lavoro diversi dal denaro.
    Non è sempre facile però creare e misurare questo commitment tra dirigenti e impresa (si pensi a Moretti che molto probabilmente non prenderà il treno per andare a lavoro) e dunque il curriculum, che determina lo stipendio, può essere il parametro maggiormente considerato nella scelta di assunzione di un manager.

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  7. L’argomento “retribuzione del management” è di per sé molto delicato. Ma lo diventa ancora di più quando i manager dirigono aziende pubbliche (controllate e partecipate dal pubblico). Una premessa importante, che a mio parere contribuisce in maniera non indifferente alla discussione, riguarda la natura intrinseca degli obiettivi aziendali, che sono fortemente contaminati da una caratterizzazione politica (in linea di principio positiva) e devono essere stabiliti attraverso criteri non soltanto economici, quanto soprattutto sociali. Le dinamiche di profitto (e tutto l’universo economico-contabile connesso) non possono costituire l’unico criterio su cui registrare la performance di un’azienda pubblica e quindi la qualità (sulla quale ancorare la retribuzione di risultato) del management. Senza avventurarsi in questioni etiche o scadere nel banale populismo, per alcune società esistono vincoli politici (e anche sindacali) molto forti che fissano tariffe, margini e retribuzioni: per questo motivo un bilancio in perdita non sempre deve essere ricollegato a un’incapacità manageriale. Per altre, operare in regime di monopolio, oligopolio o godere di un’approvvigionamento finanziario certo e diretto per ragioni politiche assicura utili, che anche in questo caso non possono essere la misura di un management che merita di essere premiato. Tutto ciò per dire che stabilire retribuzioni di risultato nel pubblico è più complicato di quanto possa sembrare e sicuramente ancor più delicato di quanto possa avvenire nel privato.

    Ma tornando alla provocazione racchiusa nel titolo di questo articolo: si, per un buon manager esiste anche il mercato delle aziende private e potrebbe essere necessaria una retribuzione elevata per averlo alla guida di una società pubblica.

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  8. Togliamoci dalla testa l’idea che per avere un buon risultato aziendale i dirigenti devono essere retribuiti di più.
    La politica di retribuzione di Whole Foods a favore non solo del manager, ma di tutte le persone che lavorano per la stessa, fa onore e ha tutta la mia stima. La crescita professionale del dirigente è importante (anche a livello retributivo), ma il suo lavoro e il raggiungimento positivo degli obiettivi non devono essere proporzionali allo stipendio.
    Concordo d’altra parte con la predisposizione di bonus che rappresentano incentivi e soddisfazioni maggiori, ma il lavoro di un buon manager deve rispecchiare la mission aziendale, primo fattore di riferimento per il buon andamento.
    Detto questo, se alcuni dirigenti minacciano un ritiro dopo un “taglio stipendio”, ben venga, ce ne saranno altri che, condividendo gli obiettivi aziendali, avranno voglia di lavorare per l’azienda e non per i soldi.

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