Perché anche Loro Piana ha problemi con i subfornitori?

“Se non ti puoi fidare di Loro Piana, di chi ti puoi fidare?”

Nei giorni scorsi ho meditato a lungo su questo titolo di un pezzo che Sarah Kent ha pubblicato una decina di giorni fa su BoF a proposito delle note vicende del brand piemontese guidato da uno dei figli di Bernard Arnault.

Le indagini che hanno rivelato come nella filiera dei subfornitori di Loro Piana siano diffuse sfruttamento, caporalato e più in generale condizioni lavorative indegne di un paese civile, non fanno che confermare quanto negli ultimi tempi era stato riscontrato in altri brand come Armani, Valentino, Aliviero Martini e Dior.

La conseguenza, come dice giustamente Kent, è una perdita di credibilità sia per il Made in Italy che per il lusso, con la presa d’atto che né la provenienza geografica del bene, né il prezzo elevato siano per il consumatore una garanzia di acquisto etico.

È fin troppo evidente che è indispensabile un’azione di controllo tempestiva e capillare da parte delle istituzioni preposte per cercare di debellare il fenomeno prima che azzeri il valore costruito nei decenni per il brand made in Italy.

Vorrei soffermarmi però brevemente sulle possibili cause che portano brand del calibro di Armani, Valentino o Loro Piana a rischiare di giocarsi la reputazione legandosi a subfornitori di più che dubbia affidabilità. Ne riesco a individuare due, non necessariamente alternative.

  1. Il modello di business del lusso è diventato insostenibile: se un palazzo in via Montenapoleone costa più di un miliardo di euro, uno spazio in Galleria ha un affitto annuo di una decina di milioni e un tennista di talento incassa ogni anno una cinquantina di milioni di sponsorizzazioni, i costi di comunicazione per il settore sono diventati così alti che per mantenere la marginalità si spinge verso una ricerca esasperata di riduzione dei costi a monte della filiera portando, come riferisce la stampa sul caso Loro Piana, ad appena 100 euro l’investimento sulla realizzazione di un capo.
    Ho scritto non a caso “mantenere la marginalità”, nel senso che per le aziende citate il tema non è non riuscire a raggiungere il pareggio tra costi e ricavi, ma mantenere i margini ai quali i mercati sono abituati.
  2. La fabbrica Italia nel sistema moda (tessile, abbigliamento e accessori) sta scomparendo: è vero, ci sono ancora tante aziende che resistono, ma è innegabile che, in parte anche per la pressione sui prezzi vista sopra, non esiste ormai più quel tessuto di piccole e medie imprese, spesso fondate da ex tecnici e operai delle grandi aziende del sistema moda, che ha dato slancio al Made in Italy nell’ultimo mezzo secolo. Il loro posto viene allora preso da nuovi imprenditori che, come rivelano le cronache, puntano sul mancato rispetto delle normative e per essere competitivi si avvalgono in parte anche di manodopera clandestina.

Il punto di partenza è comunque la necessaria presa d’atto che non siamo di fronte a incidenti di percorso, ma a un fattore strutturale di fronte al quale è necessario un intervento deciso.

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