Il fashion retailer da 40 miliardi

Poco meno di una decina di anni fa mi trovavo a New York e, tornando in albergo con mia moglie da un suo appuntamento di lavoro, ho fatto fermare il taxi davanti al negozio di abbigliamento di una catena canadese dal nome strano della quale avevo letto tante lodi sui magazine di management ma che non avevo mai visitato.

Di quella prima visita a un negozio Lululemon (che ho documentato con le foto che vedete in questa pagina) ricordo che mi erano rimaste impresse tre cose:

  • per essere un caso citato da tutti come un giovane retailer di successo ho trovato il negozio poco attraente e il prodotto poco interessante, in particolare per me che non sono mai stato attratto dal mondo dello yoga (contava probabilmente anche il fatto che l’offerta fosse pensata soprattutto per una clientela femminile);
  • era in ogni caso evidente che si trattava di qualcosa di più di un negozio: era un luogo di aggregazione e un punto di riferimento per una community di appassionati di yoga; nella foto a fondo pagina si vede ad esempio una lavagna nella quale i clienti scrivendo a mano condividevano riflessioni e feedback sui prodotti.
  • sulle shopping bag il nome dell’azienda quasi non si leggeva perché, come si vede nella foto qui sotto, tutto lo spazio era occupato da delle frasi ispirazionali; questa circostanza mi aveva così colpito che ho spinto mia moglie a comprare qualcosa per potermene portarmene via una da mostrare a lezione.

Ci ho ripensato quando nei giorni scorsi ho notato che in un anno così difficile per l’abbigliamento la capitalizzazione di borsa dell’azienda aveva raggiunto l’impressionante cifra di 40 miliardi di dollari, raddoppiando il suo valore con un balzo negli ultimi sei turbolenti mesi e con un incremento complessivo a cinque anni che ad oggi è del 460%.

Certo, negli ultimi anni i negozi Lululemon sono molto cambiati (ora devo dire che mi piacciono molto di più), l’offerta di prodotto si è allargata ad attività diverse dalla pratica dello yoga e dedica molta più attenzione anche alla clientela maschile (che l’anno scorso portato un quarto del fatturato), ma il colosso che è oggi l’azienda, quasi quattro miliardi di fatturato (raddoppiato negli ultimi quattro anni) e un utile netto di 645 milioni nel bilancio chiuso al 2 febbraio, mantiene al cuore della strategia tre elementi riconducibili direttamente a ciò che mi aveva colpito allora.

  1. Focus sul cliente target. Lululemon non è l’azienda di abbigliamento che vuole piacere a tutti, ma ha scelto un target preciso, l’appassionato di yoga e fitness attento alla salute e al benessere disposto a spendere per questi suoi interessi. Il negozio e il prodotto vogliono parlare a lui, non ad altri.
    Il risultato di questa focalizzazione sul target è che, secondo quanto riportato da uno studio di Business of Fashion, l’azienda ha un retention rate del 92% nel 20% dei clienti che spendono di più.
  2. I valori prima del prodotto. L’eccellenza tecnica del prodotto è sempre stata una priorità per Lululemon ed è oggi quasi data per scontata, ma quel che viene proposto è un vero e proprio lifestyle, come testimoniano le frasi riportate sulle shopping bag. Lululemon non vuol dire quindi solo leggings, ma “sweatlife” e il personale dei negozi non è fatto di venditori, ma di “educatori”.
  3. Alimentare la community. Con le bacheche per la condivisione di informazioni, le lavagne per scambiarsi consigli sulla musica da ascoltare correndo e con le sessioni di attività organizzate in store (più di 4.000 all’anno) il negozio Lululemon è il cuore di una community alimentata sia dagli educatori che da 2.000 ambassador (informazioni sull’interessante programma ambassadors le trovate qui).
    La prossima frontiera sarà sviluppare ulteriormente la community anche a distanza. In questa direzione va la recente acquisizione di Mirror, ma questo è un tema al quale dedicherò un altro post.

Quando il Covid ha chiuso molti dei suoi 506 formidabili negozi (l’azienda è da anni una delle catene con la resa al metro quadro più alta in assoluto), il cliente non ha così rinunciato a Lululemon, ma si è semplicemente spostato on line. Nella trimestrale presentata un paio di settimane fa, allora, mentre i negozi sono passati dal 66,1% al 31,8% del fatturato complessivo, i ricavi da ecommerce sono balzati dal 24,6% al 61,4% del totale. Il fatturato complessivo ha così registrato addirittura un piccolo progresso del 2% raggiungendo i 902,9 milioni.

Naturalmente a monte del successo di Lululemon c’è stata la capacità del fondatore Chip Wilson di individuare prima degli altri (nel 1998 quando tutto è partito) un segmento di mercato in crescita che da nicchia è diventato mainstream; un contributo allo sviluppo dell’azienda l’ha dato anche il periodo che stiamo vivendo, che ha visto nel mondo un boom di athleisure e leisurewear, ma il caso Lululemon resta soprattutto una grande lezione di costruzione e gestione di un brand forte in un periodo difficile.

3 pensieri riguardo “Il fashion retailer da 40 miliardi

  1. Un caso davvero interessante! Ho iniziato a seguirli sui social durante il lockdown, che purtroppo ci ha costretti a reinventare le nostre giornate e il nostro tempo libero. Yoga e pilates, visti inizialmente con scetticismo, sono diventati ormai una tendenza consolidata, un po’ come l’aerobica negli anni ottanta. La community svolge un ruolo fondamentale per lo sviluppo del brand e questo mi ha ricordato la storia di Phil Knight, il fondatore di Nike. Anche in quel caso i primi negozi di scarpe sportive rappresentavano un punto di riferimento per gli appassionati di sport, un vero e proprio luogo di aggregazione in cui scambiarsi esperienze e consigli sui prodotti.

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