Con il lodevole intento di “incrementare l’attrattività turistica” della mia meravigliosa Vicenza e di dare “nuovo impulso alla città”, la giunta comunale ha licenziato nei giorni scorsi delle nuove norme sull’insediamento delle attività commerciali, artigianali e dei pubblici esercizi all’interno delle mura di Vicenza e in alcune vie limitrofe. Sono naturalmente d’accordo con l’obiettivo dichiarato dal Sindaco di “agevolare l’apertura delle attività che sono in linea con la naturale attitudine al bello della nostra città”, ma leggendo il comunicato emanato dal Comune sul suo sito (lo potete leggere qui) ho trovato discutibile la filosofia di marketing alla base del provvedimento.
Riporto qui alcune perplessità con l’obiettivo di offrire degli spunti di riflessione per gli amministratori che si trovano a mettere mano alle regole di un settore importante e delicato come il commercio. Vediamo allora alcuni dei negozi che “non sarà più possibile aprire” nel centro di Vicenza.
- “Negozi che vendono (…) bigiotteria di bassa qualità”. Qui c’è un primo problema perché un prodotto di qualità per il marketing è quello che viene percepito tale dal cliente.
Ma come faranno gli uffici comunali a conoscere prima che i negozi vengano aperti le percezioni dei clienti? È impossibile, anche perché è ormai assodato ormai da decenni per la letteratura manageriale che la percezione dell’offerta è influenzata dall’atmosfera del punto vendita e che il prodotto che è percepito di qualità elevata in un contesto commerciale viene percepito di qualità bassa in un contesto diverso.
L’ipotesi che ci sia un funzionario comunale che si sostituisce ai clienti e giudica a suo insindacabile giudizio (o sulla base di indirizzi politici dell’amministrazione) la qualità della bigiotteria è ovviamente un’ipotesi che mi mette i brividi come cittadino oltre che come uomo di marketing. - “Negozi che vendono (…) usato”. Qui il problema non è di natura tecnica, ma si tratta di una misura che mi pare in contrasto con l’obiettivo del regolamento di dare impulso alla città. Usato non vuol dire brutto e un negozio dell’usato non è necessariamente più brutto di un negozio del nuovo.
Tra l’altro l’evoluzione dei gusti e dei valori dei consumatori sta rivalutando negli ultimi tempi il mondo dell’usato e mi sembra un’idea discutibile voler contrastare a Vicenza questa tendenza globale impedendo ai nostri imprenditori di cogliere eventuali opportunità. - “Sexy shop”. Ok, se vogliamo mantenere l’immagine di Vicenza città bigotta questo ci sta, anche se personalmente trovo preferibili i negozi che vendono biancheria sexy a quelli che vendono sigarette.
- “Macelleria e polleria non italiana”. Qui confesso che attendo di leggere la versione definitiva del regolamento perché fatico a capire: non mi è chiaro se l’italianità è riferita al macellaio o all’animale macellato e la ratio della norma è misteriosa. Danneggerebbe l’attrattività turistica di Vicenza se un macellaio vendesse bistecche di un manzo cresciuto al di là del Brennero? E se il macellaio fosse svizzero, in che modo la sua attività contrasterebbe con la “attitudine al bello” della città?
- “Bar e ristoranti (…) che somministrano prodotti non riconducibili alla tradizione alimentare locale”. Anche qui uno slogan facile ma poco chiaro: cosa si intende per tradizione? Le tradizioni nascono e muoiono: possiamo negare che oggi l’hamburger e la pizza siano parte della tradizione alimentare vicentina?
Rendiamoci conto che se i sindaci vicentini del ‘500 fossero stati contrari alle novità da fuori come la giunta attuale non avremmo quello che oggi consideriamo il piatto vicentino per eccellenza, la polenta con il baccalà, dal momento che né lo stoccafisso né il mais si erano mai visti nel vicentino prima del quindicesimo secolo. - “Oggettistica etnica”. Etnico vuol dire “che è proprio di un popolo, in sé o contrapposto ad altri popoli”. Un altro esercizio interessante per i funzionari che dovranno far applicare questo regolamento stabilire cosa sia etnico e cosa non lo sia.
Certo che se leggo i divieti uno di fila all’altro non ne ricavo l’immagine di una città aperta agli stranieri: spero che i turisti non se ne accorgano perché sarebbe un autogol clamoroso.
Insomma, dietro a lodevoli obiettivi, un insieme di indicazioni difficili da implementare e spesso controproducenti rispetto ai fini dichiarati nel provvedimento. Studiando da tanti anni l’evoluzione del retail in città e paesi diversi ho notato infatti che un centro “vivo, attrattivo e di qualità” è il più delle volte il risultato di sperimentazioni, contaminazioni e ibridazioni tra merceologie, tendenze e culture diverse.
Ingabbiare l’evoluzione del commercio in una fitta rete di divieti (dietro ai quali non è difficile scorgere diversi pregiudizi e anche una matrice politica ben marcata) rischia di dare il bacio della morte a un settore già duramente provato dalle vicende degli ultimi mesi.
Ritengo che più che di divieti e di richiami al rispetto di una fantomatica tradizione, gli imprenditori del commercio avrebbero bisogno di aiuti e di incentivi alla sperimentazione di cose nuove per intercettare velocemente le tendenze del mercato e affrontare un futuro che non si presenta facile.
Perfetto! Scritto in maniera impeccabile e concetti condivisibili al 100%
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