Ha fatto bene Harley Davidson a decidere (e comunicare ufficialmente) di non avere più, dallo scorso aprile, la funzione Diversity, Equity and Inclusion, di sospendere tutte le relative attività, e di sostenere d’ora in poi unicamente manifestazioni ed eventi incentrati sul motociclismo (con una rilevante eccezione: il supporto a eventi di militari e veterani)?
Se il comportamento adottato precedentemente su queste tematiche era solo un’adesione di facciata, non coerente con i veri valori aziendali, direi di sì. I brand che fanno del rainbow washing, infatti, irritano il consumatore critico di oggi molto più di quelli che non prendono nessun tipo di posizione.
Non solo: come ha insegnato l’anno scorso il caso Bud Light, c’è una fetta consistente del mercato che è composta da consumatori più o meno consapevolmente omofobi, che vanno dai rappresentanti della destra più estrema alla schiera numerosa di quelli che “io non ho niente contro i gay, ma…”. Se Harley-Davidson ritiene che questo segmento sia fondamentale per il suo business, appare razionale evitare di promuovere esplicitamente valori contrari a quelli del proprio core target.
Nella scelta di Harley-Davidson c’è naturalmente anche un rovescio della medaglia: benché smorzato dall’auspicio di avere una “broad employee and customer base” cementata dal motto “united we ride”, questo dietrofront su Diversity & Inclusion suona oggi come una presa di posizione molto forte, più forte di quella delle aziende che hanno accuratamente evitato di toccare l’argomento. Questo a maggior ragione se si considera che il post con il quale l’azienda comunica la nuova strategia non nasce da una riflessione di impronta progressista alla Rhodes, ma in risposta all’attacco di un attivista la cui posizione può essere riassunta come dichiaratamente anti Lgtbq+ (e non a caso la diffusione del post è avvenuta su X grazie al rilievo dato al post dallo stesso Elon Musk).
Se in futuro il target con il quale l’azienda ha deciso di identificarsi con il suo cambio di rotta dovesse (come personalmente mi auguro) diventare troppo piccolo in relazione agli obiettivi di fatturato del brand, riposizionarsi per conquistare consumatori con diversi riferimenti valoriali può essere molto difficile (non impossibile: Abercrombie & Fitch ce l’ha fatta, ma non è nemmeno una passeggiata alla portata di tutti). La scelta di sposare le posizioni anti Lgtbq+ potrebbe quindi essere redditizia nel breve periodo, ma rischia di minare la competitività dell’azienda in futuro.
Una cosa è certa: in un mondo polarizzato, quello che vediamo nei toni di campagne elettorali come le politiche francesi o le presidenziali americane, la decisione di come posizionarsi su temi divisivi non va presa con leggerezza o seguendo le mode perché i dietro front sono la scelta più pericolosa.