Uno dei fenomeni legati al mondo della moda più discussi di questa estate è certamente la comparsa dei cosiddetti burkini sulle nostre spiagge. A parte qualche vistosa eccezione l’orientamento che sembra prevalere è quello di una certa tolleranza di fronte alla scelta di indossare questo capo d’abbigliamento al mare e in piscina.
Si tratta allora di una nuova opportunità di mercato per quelle aziende (e ce ne sono già diverse anche tra i brand di primo piano) che hanno deciso di dedicare uno spazio nel loro sistema di offerta alla moda islamica, cioè a capi di abbigliamento compatibili con usanze e normative di diversi stati islamici. Del resto quello che viene chiamato “modest fashion” è un business stimato già oggi in circa 300 miliardi di dollari con un tasso di crescita a doppia cifra. E’ però un’opportunità che le aziende del Made in Italy dovrebbero sfruttare?
Pierre Bergé, lo storico partner di Yves Saint Laurent, in una intervista pubblicata lo scorso 30 marzo su WWD si è dichiarato “scandalizzato” che alcune aziende abbiano scelto di sfruttare il trend della moda islamica sulla base della convinzione che il ruolo del fashion designer sia quello di “rendere le donne bellissime e di garantire loro la libertà”.
Il motivo per cui ritengo che i brand del Made in Italy dovrebbero dire no al burkini, e in generale al ricco mercato della moda islamica, è però un altro. Il fascino della moda italiana infatti è legato in modo indissolubile al lifestyle italiano e a ciò che rappresentano l’Italia e la sua cultura nel mondo.
Per quanto sia innegabile che introdurre una linea dichiaratamente di ispirazione islamica significhi dare una risposta alle richieste di un promettente mercato di consumatori griffe addicted desiderosi di esibire brand italiani, si tratterebbe per un’azienda del Made in Italy di un tradimento dell’identità profonda del suo brand e quindi di una strategia destinata a diluirne il significato e il valore.
Meglio allora per queste aziende resistere alle sirene del mercato e proporre soltanto prodotti che comunichino la propria brand identity in modo coerente.
Interessanti sia l’osservazione di Bergé che di Cappellari, ma c’è un però.
Poniamo che le aziende occidentali seguano questa linea e che azienda X diventi il lusso del burkini.
Da lì quindi il passo allo sviluppo di linee occidentali da parte di azienda X non sarà così complicato, ed una volta messa su Bond st vicina alle altre europee, per chi sarà più facile alzare lo scontrino medio?
E data la composizione del fatturato nel settore lusso da portafogli al profumo di petrolio (che non conosco ma ho la sensazione sia rilevante), è un rischio che vogliamo correre?
Meglio magari ricorrere ad una brand extension o capsule con un D&G che riscopre il medio oriente (da cui la Sicilia ha tratto molto)..
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Concordo con l’ex compagno di Yves Saint Lurent, Pierre Bergé, non soltanto per la su filosofia liberista, tra l’altro portata avanti egregiamente dall’uscente art director della casa parigina Hedi Slimeane (vedremo per il sostituto Anthony Vaccarello), ma soprattutto per il fatto che così si perderebbe la caratteristica stessa di un’eventuale azienda del lifestyle dirottando la spinta creativa, riducendola ad una mera e subdola fonte di guadagno governata soltanto dai principi di marketing e non quelli creativo-immateriali. Si sa la verità sta sempre nel mezzo!!
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