Dolce e Gabbana, le tasse e i marketing manager

Considero Domenico Dolce e Stefano Gabbana due grandi imprenditori, due geni del Made in Italy e ritengo che non solo Milano, ma tutta l’Italia debba molto a imprenditori come loro. Personalmente poi adoro le loro campagne di comunicazione sempre chiare e coerenti, e non solo quelle nelle quali appare la bellissima Monica Bellucci.

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Proprio perché ammiro il loro lavoro, però, non posso che essere colpito per lo stile e i contenuti delle due pagine che gli stilisti hanno acquistato sabato sul Corriere della Sera e che sono riportate in fondo a questo post.

Premetto che non entro nel merito della diatriba con l’Amministrazione milanese e dell’uscita del suo Assessore (francamente infelice visto che la vicenda giudiziaria è ben lontana dall’essere definita) e che non voglio nemmeno tentare di esprimere un giudizio tecnico sulla vicenda che li vede da qualche tempo in contrapposizione con il Fisco per il pagamento di diverse centinaia di milioni di euro. Si tratta di una vicenda molto complicata perché verte sul valore che aveva il marchio Dolce e Gabbana quando qualche anno fa la società italiana dei due stilisti ha deciso di venderlo alla loro società lussemburghese, società che poi ha ceduto in licenza lo stesso marchio alla società italiana di Dolce e Gabbana. Gli stilisti e i loro consulenti sostengono che il valore del marchio ceduto era di 360 milioni di euro mentre per l’Agenzia delle entrate tale valore era nell’ordine di tre volte tanto.

La lettera dei legali dei due stilisti pubblicata con grande evidenza sui quotidiani, però, non spiega le valutazioni aziendali che hanno portato a trasferire il marchio in Lussemburgo e nemmeno se il valore al quale è stata effettuata la transazione fosse corretto. Con un linguaggio roboante nella pagina in questione ci si indigna invece per la pretesa di imposte su redditi “mai (ripetiamo mai!!) percepiti” (grassetto e punti esclamativi nell’originale). Essere tassati su redditi non percepiti può sembrare strano, ma pensandoci bene non lo è perché altrimenti ogni società italiana potrebbe azzerare i suoi redditi tassabili in Italia semplicemente regalando tutta la sua produzione a una sua consociata con sede in un paradiso fiscale e facendo realizzare a questa tutti i profitti (profitti che poi sarebbero tassati nel paradiso fiscale con aliquote più basse); di fronte a tentativi del contribuente di far risultare come realizzati all’estero dei redditi che in condizioni normali sarebbero apparsi nei bilanci italiani è giusto che il Fisco tassi in Italia anche dei redditi non effettivamente percepiti.

Il vero problema è: il caso di Dolce e Gabbana è uno di questi o il comportamento dell’azienda è stato corretto e l’Agenzia delle entrate ha clamorosamente sbagliato le sue valutazioni? Grassetti e punti esclamativi del messaggio dei legali degli stilisti creano un polverone senza aiutare i non addetti ai lavori a capire come stanno le cose e lasciando nel lettore la sgradevole impressione di essere davanti a un litigio nel quale ognuno cerca di gridare più forte dell’altro senza curarsi di spiegare pacatamente le proprie ragioni.

Insomma: è un messaggio per tono, stile e contenuti del tutto dissonante con gli altri messaggi con i quali l’azienda è solita comunicare. La morale che si può ricavare da questa storia è quindi che seguire con coerenza una strategia di comunicazione integrata è più difficile di quanto non sembri e che se si hanno in azienda dei bravi marketing manager è sempre meglio lasciare nelle loro mani il coordinamento di ogni scelta di comunicazione.

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